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Distorsioni. La spallata degli esclusi: operai, donne e stranieri contro il fascismo



Nel dopoguerra si è raccontata spesso la Resistenza sotto un profilo militare e con un'impronta patriottica, due aspetti che hanno avuto centralità ma che non esauriscono affatto la questione. È bene allora ricordare che la prima spallata al regime la diedero le donne e gli operai e che, in seguito, all'interno delle formazioni combattenti il contributo degli stranieri fu determinante.

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Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, olio su tela, 1941

Soli contro il regime, 1922-1943


«Noi antifascisti attivi eravamo incredibilmente pochi e ci sentivamo soli. Ricordo quel tempo come solitudine», avrebbe scritto l'azionista Vittorio Foa del ventennio fascista introducendo le sue Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, rievocando gli anni di prigionia suoi e di coloro che tennero testa al regime. Non si può certo parlare di una limpida continuità, seguendo il tracciato che ci porta dall’antifascismo del ventennio all’anno spartiacque, il 1943, ma alcuni percorsi biografici preziosissimi come quello di Foa furono dei ponti da un’esperienza caparbia e minoritaria a quella successiva, che sarebbe stata partecipata da un gran numero di giovani. 

Nel 1943 gli antifascisti della vecchia guardia con alle spalle una militanza di due decenni, che ben poco si aspettavano dalle «congiure di palazzo» (per usare le parole di Ferruccio Parri), iniziarono a incontrare quelli nuovi, nati e cresciuti sotto il fascismo e che avevano combattuto le sue guerre, manifestando nei loro confronti – come sintetizza Claudio Pavone – «un atteggiamento in cui prevalevano un ovvio pragmatismo (l’importante è che vengano a noi), il rispetto per le sofferenze patite, il riconoscimento (non privo talvolta di interessate punte retoriche) del valore comunque dispiegato, la soddisfazione nel constatare tanta capacità di riscatto», tanta «profonda ribellione morale maturata specialmente nel corso della guerra», come scrisse un opuscolo liberale lombardo. Perché, un giorno di fine inverno del quarto anno di guerra, i vecchi antifascisti che avevano combattuto una lunga battaglia di retroguardia, soli non furono più. 

Il celebre fotomontaggio che scolpì nella memoria collettiva l'immagine degli scioperi del marzo 1943.


Gli operai, 1943 


«A dare il via al grande sciopero del marzo-aprile 1943 dovevano essere gli operai della Fiat Mirafiori di Torino. Il 5 marzo, verso le ore 10, nelle diverse officine di questo stabilimento, gli operai, per quanto agli occhi di un osservatore superficiale potessero apparire intenti al lavoro, avevano l’aria, per chi li osservasse più profondamente, di essere in attesa di un grande avvenimento: essi attendevano, per dare inizio allo sciopero, il segnale-prova-di allarme, che veniva azionato ogni giorno alle ore 10.» 
Un altro protagonista della parabola antifascista – lui stesso militante incarcerato, clandestino, esule – e regista di queste giornate, il comunista Umberto Massola avrebbe raccontato così lo scoccare della scintilla nel libro del 1950 Marzo 1943 ore 10, in una vivida descrizione che sarebbe stata la matrice di ogni rievocazione di quel momento leggendario, come sottolineato di recente nell'Annale della Fondazione Di Vittorio Operai, fabbrica, Resistenza. Fatto sta che gli scioperi del marzo del 1943 si rivelarono una spallata spaventosa al regime saldamente al potere da oltre vent’anni e in guerra da trentatré mesi. Il dissenso operaio si diffuse come un incendio, tracimando presto oltre il triangolo industriale, mostrando il montante scollamento tra regime e classi popolari, coinvolgendo decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici e anticipando quello dell’anno successivo che si sarebbe rivelato un fatto unico nell’Europa occupata – per dimensioni e potenza reale e simbolica – ma che in Italia aveva non fragili premesse. 


Le donne, 1941-1943 

Un anno e mezzo prima, ad esempio, proprio nel quartiere di Parma che aveva resistito militarmente agli squadristi prima della marcia su Roma, Oltretorrente, «una ciurma» di donne aveva assalito un furgone della Barilla per distribuirne il contenuto alla popolazione, e lo stesso era accaduto in un’altra zona della città. Quello che i documenti del 1941 non dicono «è la profondità della loro esasperazione» (come rileva il sito geostorico La città delle donne), che spinse queste donne a proseguire la rivolta, mostrando al regime le dimensioni di un dissenso che in alcuni angoli del paese era rimasto a covare sotto la cenere, con la paziente opera dei militanti più «politici» che avevano lavorato costantemente su quelli che l'antifascista Giorgio Amendola avrebbe definito i «dormienti», riferendosi all'«opposizione dei senza partito, di coloro che intimamente non si piegavano»: «Noi li chiamavamo allora “i dormienti”, con una frase critica che voleva essere spregiativa», avrebbe ricordato nei primi anni Sessanta. E fu così che, già nel primo scorcio di anni Quaranta, l’Italia esasperata dai bombardamenti, dalle menzogne del regime, dalla fame, dalla borsa nera, dall’incertezza – l’Italia che aveva figli, mariti, padri, nipoti in guerra – si svegliò. Una sostanziale parte di essa, almeno: una nutrita minoranza, sostenuta da ampi strati della popolazione. 
 Casa-museo di Duccio Galimberti, Cuneo (fotografia di J. Poggi). 

«Sarà guerra di liberazione» 

Dopo gli scioperi di marzo, il 25 luglio il regime collassò in quello che in molti percepirono fin da subito come un colpo di Stato in cui il fascismo implodeva liberandosi – parzialmente – di sé stesso, o almeno del suo leader. Ma la deposizione di Mussolini non avrebbe riportato indietro «le lancette della storia», ammonì in quelle ore l’avvocato Tancredi «Duccio» Galimberti da un balcone, a Cuneo: nonostante la gioia popolare che abbatteva come d’incanto i simboli del regime, infatti, i fascisti potevano continuare a camminare impettiti per le strade ed esibire il loro potere. Gli antifascisti che in quegli anni avevano osato sfidare il carcere o il confino restavano in prigione, ricordava Galimberti, e molti altri erano destinati a raggiungerli in quei luoghi di sofferenza. «Sarà guerra di liberazione» contro i tedeschi e i fascisti, fu la sua premonizione. Solo una libera scelta, compiuta dal basso, di massa, avrebbe potuto riscattare gli italiani dalla vergogna di vent’anni di fascismo, aggiungeva. E non avrebbe potuto essere una sola parte politica a costruire o ricostruire quei valori, insisteva indicando il suo studio, nel quale si erano incontrati esponenti azionisti, comunisti, socialisti, democristiani e liberali, per costituire un Comitato che avrebbe lanciato un appello alla popolazione. «Chiediamo giustizia, non vendetta», proclamava Galimberti. «Dopo vent’anni di oppressione abbiamo riconquistato la libertà. Non vogliamo separarcene mai più», concludeva. 
Seguirono i «45 giorni» del governo Badoglio che si conclusero con una rovinosa incapacità – e non volontà – di istruire le forze armate sul comportamento da tenersi quando, fatto previsto dagli stessi nazisti, l’Italia avrebbe cambiato versante, schierandosi con gli Alleati contro il suo ex compagno di strada tedesco. È in questo vuoto istituzionale, spaventoso e allo stesso tempo esaltante, che la Germania occupò rapidissimamente gran parte del territorio italiano abbandonato a sé stesso dalla monarchia, e in un’ampia area della penisola sorse la Repubblica sociale e nacque la Resistenza al nazifascismo, vale a dire agli uni (i nazisti) e agli altri (i fascisti) nemici. Una delle prime bande venne fondata proprio da Duccio Galimberti e altri undici, a Madonna del Colletto, nel Cuneese. 
Accadde tutto molto in fretta: mentre le carceri si svuotavano dei vecchi antifascisti e dei prigionieri alleati, la popolazione civile – e in particolare quella contadina – si distinse per un’enorme operazione di maternage di massa, come ci ha più volte ricordato la storica Anna Bravo venuta a mancare di recente: dei circa 85.000 prigionieri liberati, un terzo «si inabissò nel mare delle campagne italiane scomparendo agli occhi dei tedeschi e dei fascisti» (questa è una felice definizione di Giovanni De Luna), in un’opera di assistenza totalmente disinteressata, così come, nel Nord del paese, i contadini si presero cura degli sbandati dell’esercito, un fiume in piena che entrava e usciva dalle frontiere. 

La Resistenza internazionale 

Il lungo processo di discredito della Resistenza – da destra – e il suo continuo «ripensamento» dall’altra parte, in questi anni, si sono messi al servizio di convergenze di interessi politico-culturali di segno opposto, con responsabilità non irrilevanti dei media sempre alla ricerca di titoli ad effetto. E così, in questa nuova egemonia che suggerisce di salvaguardare un’«italianità» sincera – comprese quella fascista che bruciava villaggi e catturava ebrei, e quella che voleva farsi i fatti propri –, è andata completamente perduta, nel discorso pubblico, la dimensione internazionalista della lotta. È non è certo un caso. 
Eppure già Roberto Battaglia, nella prima grande narrazione della guerra partigiana Storia della Resistenza italiana (1953), dedicava alcune pagine al tema su cui avrebbe scritto in maniera pionieristica, ricordando non solo gli Alleati e i sovietici (diverse migliaia) che si unirono alla Resistenza, ma anche molti altri, e su tutti gli slavi e i disertori dell’esercito tedesco (nati nel Reich o altrove), che appaiono «nelle file del movimento partigiano in quasi tutte le regioni del Nord». Come avrebbe sottolineato Pavone molto tempo dopo, si sarebbe addirittura tentato di costituire reparti composti integralmente da disertori della Wehrmacht (che erano certamente svariate centinaia): nella sola provincia di Parma c’erano 24 partigiani tedeschi e 11 austriaci e al confine tra Friuli e Austria venne persino creato il battaglione misto «Freies Deutschland» (Germania Libera). D’altra parte a ricordarcelo c’è anche la vicenda di un tedesco «illustre», Heinz Riedt, il traduttore di Primo Levi, il quale aveva preso contatto con i gruppi antifascisti di Concetto Marchesi. «Tulipano», il giovane braccio destro di Ferruccio Parri che riuscì a evadere da un treno diretto a Mauthausen e che avrebbe affiancato Parri anche nel «governo della Resistenza», era olandese e si chiamava Walter de Hoog. 
Ma la Resistenza italiana fu anche creola, e venne partecipata da oltre cinquanta nazionalità, compresi sudamericani e centroamericani. Non si tratta solo di simpatiche curiosità, è anzi una faccenda serissima e commovente: dagli albanesi ai greci, dai libici agli etiopi, dagli eritrei ai somali, anche chi aveva le sue origini nei territori martoriati dall’occupazione italiana arrivò a combattere per liberare la patria dei propri oppressori; la vicenda più nota resta forse quella di Giorgio Marincola, italo-somalo assassinato alla fine della guerra dopo aver condotto un’esistenza eroica. Anche rom e sinti presero parte alla lotta. 


Partigiani dell'Islafran

Cosa non dimenticare 

La dimensione internazionalista va ricordata, sempre, non solo per quanto riguarda l’Italia ma anche perché ovunque, in Europa, si verificarono straordinarie convergenze d’intenti. La divisione partigiana Garibaldi, in Montenegro, costituisce uno stupefacente esempio, in questo senso: 20.000 italiani combatterono fianco a fianco ai partigiani locali, e tra i 6.500 e gli 8.500 di loro morirono per la libertà degli jugoslavi. In parallelo gli italiani, in Francia, combatterono a migliaia (antifascisti di vecchia data, giovani emigrati, ex soldati) e specularmente, tornando in Italia, una formazione partigiana delle Langhe era chiamata Islafran, perché in essa militavano per l’appunto italiani, slavi e francesi – non fu un’esperienza facile, ma fu visionaria. 
Storie come queste ci permettono di intravedere l’Europa e il mondo di oggi, di reinterpretare il portato universale della lotta, dopo aver a lungo marcato – a conflitto in corso e nel dopoguerra – il suo carattere «patriottico» perché unificante, perché per moltissimi combattenti era in effetti la motivazione prevalente, perché era (durante e dopo) una strada semplice da percorrere. Che ci si è ritorta contro, ritornando al mittente rivestita da nazionalismo, in un tanfo che troppo spesso non ci permette di districarci tra i due termini – «patria» e «nazione» – che possono assumere significati quasi antitetici. Quello internazionalista è un ingrediente fondante per rinnovare la narrazione di una Resistenza che ebbe una dimensione transnazionale, e in un paese (e in un continente) nel quale convivono storie così diverse tra loro credo sia fondamentale provare a interrogarsi su quali tasti «attiva» la storia dell’antifascismo in un ragazzo nato nel Corno d’Africa, o in Afghanistan, o in Niger. Basta discuterne con i nuovi italiani – si pensi al progetto «Luoghi Comuni» dell’associazione Generazione Ponte – per rendersi conto del fatto che a loro, che spesso arrivano da zone attualmente in conflitto, risulti immediatamente chiaro che per sconfiggere il mostro che l’Europa aveva generato sarebbe stata necessaria una guerra senza quartiere, e (bisogna aggiungere) una radicalità trasversale. Che in guerra non si scherza: in guerra si uccide o si muore. 
La migliore risposta a questa continua opera di delegittimazione dell’antifascismo e della Resistenza risiede innanzitutto nel saper vedere l’immensa capacità che ebbero questi uomini e queste donne – operai e intellettuali; militari e contadini; giovani e “anziani”; italiani e stranieri – di sacrificare il loro presente e i loro destini per il bene della collettività, provando ad anticipare anche nel concreto scorrere della lotta frammenti della società nella quale credevano. Nella quale c’era spazio per tutti, indipendentemente dalla provenienza, ma non c’era spazio per i fascisti. 


Ada Gobetti, antifascista e partigiana, 1902-1968.

[Articolo a cura di Carlo Greppi]



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