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Scorci. Dagli all'untore: la peste tra Sei e Settecento


Il dibattito sulle epidemie e sulle misure per contrastarne la diffusione è onnipresente sui mezzi di comunicazione. Vale la pena provare ad affrontarlo anche adottando uno sguardo storico.


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Michel Serre, Scena della peste del 1720 a La Tourette di Marsiglia (1720), Musée Atger, Montpellier

La peste nello Stato assoluto
Marsiglia, 1720. È questa l'ultima volta in cui nella storia dell'Europa moderna la peste esige, in modo devastante, il suo oneroso tributo di sangue. Siamo nella Francia dell'assolutismo e la macchina amministrativa del regno è considerata il modello di efficienza e operatività a cui tutti gli altri paesi guardano con ammirazione. Il caso della peste marsigliese diventa immediatamente un banco di prova dell'efficacia degli strumenti d'intervento statale. Ed è una prova superata sul piano generale, perché, per quanto devastante, l'epidemia non si espande molto oltre l'area della Provenza. Le misure d'eccezione che gli uffici di sanità pubblica marsigliesi mettono in atto segneranno un'epocale trasformazione dello spazio urbano della città e dell'articolazione dei suoi poteri. L'instaurarsi di una speciale “polizia di peste”, che non risponde al consiglio comunale, al posto delle normali guardie urbane, e di un duplice comando militare municipale al posto delle tradizionali magistrature cittadine, sono i tratti più evidenti delle misure emergenziali che vengono adottate. Ce lo documentano magistralmente le ricerche della giovane storica francese Fleur Beauvieux.

Michel Serre, Vue du Cours pendant la peste de 1720 (1721), Musée des beaux-arts de Marseille

È bene chiarirlo subito: l'epidemia è terribile tanto per Marsiglia – dove dei 75.000 abitanti ne moriranno 40.000 – quanto per buona parte della Provenza – dove il contagio produrrà altri 50.000 decessi. Le rilevazioni del commissariato di sanità impressionano per il picco iniziale di mortalità: tra la fine di giugno e l'inizio di luglio del 1720, vi sono alcune punte di mille morti al giorno. Il dato che conta, però, nell'ottica dello stato francese è che da Marsiglia la peste non si diffonderà molto oltre l'area rurale circostante. Le drastiche misure di polizia, il capillare contenimento e il preciso disciplinamento della popolazione hanno determinato il successo nel circoscrivere il contagio. Come hanno illustrato William Naphy e Andrew Spicer in un'agile ricostruzione della storia della peste in Europa, le pratiche di prevenzione e di contenimento del contagio epidemico funzionano, nei secoli compresi tra Quattrocento e Settecento, perché vanno di pari passo con lo strutturarsi di quel temibile Leviatano che è lo Stato moderno.

Combattere la peste, controllare la popolazione
Questa chiave di lettura, piuttosto condivisa tra gli storici, riporta tuttavia alla ribalta altri spunti interpretativi, quelli che, da Foucault in avanti, vedono nello “stato d'eccezione” con cui si fronteggiano le emergenze improvvise il mezzo attraverso cui viene aggiornata costantemente la grammatica della “normalità”. Provando a ridurre ai minimi termini un discorso che sarebbe altrimenti molto complesso, questa è la tesi secondo cui eccezionalità e normalità si inseguono e si ridefiniscono continuamente nell'età moderna, accompagnandosi alla ristrutturazione e riformulazione della società stessa in cui i fenomeni si manifestano. Per questo si potrebbe dire, assecondando la prospettiva foucaultiana, che alla fine dell'età moderna, dopo quasi quattro secoli di affinamento delle pratiche di contrasto alle epidemie, la società europea si mostra totalmente ristrutturata. Essa è stata totalmente rifondata sul paradigma teorico del disciplinamento totale, in cui ciascuno deve stare al posto assegnatogli.

«La città appestata – scriveva Foucault in Sorvegliare e punire (1976) –, tutta percorsa da gerarchie, sorveglianze, controlli, scritturazioni, la città immobilizzata nel funzionamento di un potere estensivo che preme in modo distinto su tutti i corpi individuali, è l'utopia della città perfettamente governata.»

È a partire da qui che si dispiega il processo che conduce alla modernità più matura. Il paradigma medico – insieme ai suoi corollari di controllo e schedatura dei malati, dei sospetti, dei possibili contagiosi – è assunto dall'immaginario della modernità e così si dirama nei mille rivoli dei processi storici successivi. La peste o, più in generale, qualunque morbo contagioso, diventano un tòpos su cui si costruiscono gli orizzonti di definizione della realtà nei secoli successivi. Aggiunge ancora Foucault:

«La peste è la prova nel corso della quale si può definire idealmente l'esercizio del potere disciplinare. Per far funzionare secondo la teoria pura i diritti e le leggi, i giuristi si ponevano immaginariamente allo stato di natura; per veder funzionare le discipline perfette, i governanti postulavano lo stato di peste.»

Il lazzaretto di San Gregorio a Milano del 1630 in un disegno di Giovanni Francesco Brunetti: un tipico esempio di politiche di reclusione, controllo e classificazione della popolazione.

Giustapponendo il quadro meramente descrittivo – come hanno funzionato la repressione e il contenimento della peste lungo i secoli – a quello interpretativo – cioè cosa ha comportato questo processo – si sarebbe portati a dire che il disciplinamento sociale è stato il salato prezzo da pagare per condurre in porto la lotta serrata alle epidemie di peste (ma il discorso potrebbe valere, con le distinzioni del caso, anche per le altre devastanti malattie come il tifo, il colera o il vaiolo). Insomma, sarebbe un'ennesima variante del “disagio della civiltà”, in base a cui la repressione è il prezzo da pagare per poter vivere insieme.
Se però ci abbassiamo au ras du sol, mettendo momentaneamente tra parentesi la legittima ambizione a teorie interpretative più generali, possiamo individuare spunti di riflessione notevoli scrutando alcuni episodi nella storia delle epidemie di peste in Italia nel Seicento.

«Dagli all'untore»: la Colonna infame di Milano
Quella della “colonna infame” di Milano è una storia piuttosto nota. Racconta del processo a Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza, accusati nel 1630 di essere “untori”, cioè di aver diffuso, seguendo le trame di un oscuro complotto, il morbo della peste nella città di Milano. Se non direttamente, la vicenda è conosciuta almeno di riflesso, visto che, tra i tanti che se ne sono occupati, il più celebre è senza dubbio Manzoni con la sua Storia della colonna infame.
A rendere particolarmente icastica la memoria dei fatti sono alcuni elementi: l'ossessiva psicosi per il complotto, diffusa sia tra la popolazione sia tra le autorità giudiziarie, la pratica di terribili torture per estorcere le confessioni agli imputati e infine la condanna capitale comminata attraverso il supplizio atroce della ruota. A questo si aggiunge la distruzione della bottega (nonché abitazione) di Gian Giacomo Mora per poter erigere al suo posto una “colonna” a perenne memoria dell'infamità degli untori. Prima e dopo Manzoni la storia della “colonna infame”, fatta distruggere nel 1778 in pieno clima illuminista, ha destato soprattutto un interesse erudito, volto a svelare reconditi dettagli sulle fasi processuali, sulle testimonianze estorte e su verosimiglianze e inverosimiglianze nelle confessioni degli imputati. In un certo senso, a concentrarsi su cosa non fossero le due disgraziate vittime della condanna (cioè, banalmente, non erano untori) e su come si articolasse la macchinazione nei loro confronti, si è perso di vista chi fossero davvero e cosa ci può rivelare il loro ruolo sociale riguardo alla storia della peste in età moderna. Proviamo a seguire queste tracce.

Disegno di Francesco Gonin per l'edizione del 1840 dell'opera di Manzoni

Due capri espiatori: un “poliziotto della peste” e un cerusico
Guglielmo Piazza era un “commissario di sanità”, ossia un “poliziotto della peste”, insomma uno di quegli uomini reclutati dall'amministrazione pubblica per rendere concrete le misure di controllo, separazione e disciplinamento che la presenza di un'epidemia comportava.
«Combattere contro un nemico invisibile e irriducibile: questa era la sfida che aveva spinto, nella prima età moderna, gli stati italiani dell'Italia centro-settentrionale a mettere in piedi un sistema di sanità pubblica. Il nemico da fronteggiare erano le epidemie di peste». Ne Il pestifero e contagioso morbo Carlo M. Cipolla, uno tra gli storici che maggiormente si è dedicato al tema, ci spiega come la nascita di apposite Magistrature della Sanità Pubblica aveva posto all'avanguardia, in questo specifico campo, la maggior parte degli antichi stati dell'Italia centro-settentrionale, rispetto a tutto il resto d'Europa. In alcune realtà queste Magistrature avevano una struttura permanente, composta di funzionari specializzati e costantemente formati, ma quando scoppiava un'epidemia reclutavano nuovi commissari per rispondere all'emergenza. È questo il caso di Guglielmo Piazza.
In base al suo ruolo, egli era comunque uno dei pochi che, almeno teoricamente, aveva libertà di movimento in una Milano sottoposta a rigido controllo. Proprio questa libertà di movimento lo porta ad essere accusato – sulla base delle testimonianze raccolte – di aggirarsi circospetto per le vie milanesi e di “ungere” le porte delle case per spargere il terribile morbo. Interrogato e, sin da subito, secondo l'uso dell'epoca, sottoposto a torture, Piazza si mantiene a lungo lucido e replica precisando che il suo muoversi per la città risponde ai precisi compiti assegnatigli, cioè ispezionare le abitazioni e annotare le condizioni di salute della popolazione dei quartieri milanesi. Però, dopo svariate sedute di “corda”, in cambio della (falsa) promessa di impunità se avesse rivelato i nomi dei complici, ecco che Piazza tira in causa Gian Giacomo Mora. Perché proprio lui?
Mora è un “cerusico”, ossia un barbiere, uno che, come era tipico del paradigma scientifico del Seicento, sapendo maneggiare il rasoio e strumenti simili, svolgeva le funzioni di para-medico. I medici teorizzavano cosa fare e, se serviva, i barbieri si sporcavano le mani, incidendo, tagliando, amputando. Ispezionando la bottega di Mora gli inquirenti trovano ciò che risponde agli schemi del loro castello accusatorio: scoprono degli unguenti. È questa la prova che Mora fosse davvero un untore? Assolutamente no. Come molti provava a speculare sull'epidemia, vendendo intrugli lenitivi agli appestati. Le epidemie facevano crollare l'economia tradizionale, ma un sottobosco di scambi clandestini se ne giovava. Si vendevano pozioni, intrugli e tisane curative.
Un “poliziotto della peste” e un “cerusico” come capri espiatori funzionano bene: mettono insieme i due poli del governo della peste, quello politico e quello medico. Manca però uno sfondo su cui innestare la vicenda ed è la teoria medica epidemiologica in voga all'epoca.

Soluzioni efficaci da un paradigma errato
«La storia della medicina in Europa dalla fine dell'età classica agli inizi dell'età contemporanea è la curiosa storia di un paradigma teorico fondamentalmente sbagliato che purtuttavia riuscì a dominare e condizionare il pensiero medico per una sequela di secoli eccezionalmente lunga». Così Carlo M. Cipolla - in Miasmi e umori - delinea l'aspetto più bizzarro delle teorie sulla peste che restarono in voga per secoli. Come oggi sappiamo la peste era diffusa attraverso un bacillo – lo Yersinia pestis – che giungeva a contaminare gli uomini grazie a un particolare vettore, ossia le pulci che, nelle condizioni d'igiene tipiche dell'epoca, abbondavano, con una particolare predilezione per le classi sociali subalterne.
La teoria medica dell'età moderna tuttavia non contemplava l'esistenza dei “microbi” e dei loro vettori, si basava sull'assunto che i morbi si spargessero attraverso “atomi venefici”, percepibili attraverso gli olezzi, i miasmi, i cattivi odori. Il “pestifero e contagioso morbo” – così era stata denominata la peste in un trattato medico – si propagava attraverso una non ben definita corruzione e infezione dell'aria, solita degenerare in terribili e velenosi miasmi che si attaccavano agli individui, agli animali, agli oggetti. Per prevenire, contenere, eliminare la malattia bisognava quindi contrastare i cattivi odori. Paradossalmente alcune delle misure intraprese in questa direzione, come la bonifica e la sanificazione degli ambienti abitativi, la sostituzione dei pagliericci nelle case dei poveri, la distruzione dei tessuti e delle pellicce che trattenevano gli odori andavano nella direzione giusta – quella di eliminare il contesto in cui i parassiti come le pulci potevano proliferare – pur partendo da presupposti sbagliati. Per restare alle parole di Cipolla, «al miscuglio di errore ed esattezza che dominava a livello teorico corrispondeva comprensibilmente a livello operativo una curiosa combinazione di provvedimenti senza senso e misure illuminate».

Un abito da medico degli appestati.
Per contrastare i "miasmi" pestiferi i medici del Seicento indossavano speciali vestiti cerati, dotati di occhiali protettivi e naso a becco per filtrare gli odori. L'obiettivo di tenere lontani gli effluvi rendeva impossibile anche alle pulci di attaccarsi all'abito: la strana eterogenesi dei fini perpetrava l'equivoco del paradigma medico.

Politica ed economia dell'emergenza nell'Italia del Seicento
Ciò che è certo è che fronteggiare la peste significava, per gli antichi stati italiani dell'età moderna, farsi carico di costi economici enormi. E c'erano costi immediati, legati alle spese da sostenere per contenere il contagio, e costi differiti, quelli collegati al crollo della produzione e degli scambi commerciali: evitare gli scrupoli eccessivi nell'affrontare i costi immediati poteva servire a rendere meno gravosi i costi differiti.
I regimi di quarantena, laddove applicati con zelo, comportavano l'immobilizzazione di decine di migliaia di persone, con tutte le conseguenze del caso in termini di occupazione. A Firenze, nel 1630 nel pieno della medesima epidemia che sconvolge la Milano del processo agli untori, la disoccupazione era aumentata del 150%, portando il numero dei bisognosi di assistenza in quarantena a 30.000. Il governo cittadino se ne prende carico con uno sforzo eccezionale che costa 150.000 scudi e comporta il dispiego di oltre mille addetti alla preparazione e distribuzione delle “provvidenze”.
Vent'anni più tardi, nel 1652, le avvisaglie di un'altra epidemia di peste mettono in moto un curioso meccanismo di cooperazione tra stati. Ne sono protagoniste in prima battuta Genova e Firenze che, da un'iniziale ostilità dovuta al sospetto che l'amministrazione di sanità dell'una menta a quella dell'altra in relazione all'approdo nei propri porti di navi in cui è presente il contagio, giungono a un singolare accordo di collaborazione tra le proprie Magistrature di Sanità. Cercano di coinvolgere, inizialmente con qualche successo, anche lo Stato pontificio. La proposta è semplice: nei porti di Genova, Livorno (scalo mercantile del Granducato toscano) e Civitavecchia (principale porto tirrenico dei territori papali) dovranno essere presenti ispettori di sanità dei tre diversi stati, i quali valuteranno l'opportunità dell'ingresso in porto delle navi applicando un protocollo comune. L'embrionale proposta di un sistema sanitario sovranazionale naufragherà presto, nonostante i tentativi di invitare persino il Regno di Napoli all'adozione di politiche comuni nell'ambito della prevenzione e della salute.
«E tuttavia quel loro patto – scrive ancora Cipolla –, pur se di breve durata, rappresentò un primo capitolo affatto notevole nella storia della cooperazione sanitaria internazionale. Quasi due secoli dovettero trascorrere prima che venisse nuovamente tentato qualcosa di analogo, quando il 23 luglio 1851 – indotta dallo spauracchio del colera – si aprì a Parigi la Prima conferenza sanitaria internazionale».

Il prezzo del contagio
Siamo partiti con Marsiglia e torniamo, infine, a Marsiglia. La ricostruzione consolidata della peste del 1720 ci offre addirittura una data precisa a indicare l'ingresso della morte nera in città: è il 25 maggio, quando una nave mercantile, il vascello Le Grand Saint-Antoine, proveniente da Seyde, in quello che allora era detto Levante (oggi diremmo in Siria), entra nel porto con un prezioso carico di tessuti del valore di 100.000 luigi d'argento.
Per le Grand Saint-Antoine l'ultimo scalo prima di arrivare a destinazione era stato il porto di Livorno, lo stesso che settant'anni prima era stato protagonista dei tentativi di cooperazione sanitaria internazionale. I commissari di sanità livornesi avevano segnalato sui libretti di viaggio del vascello francese che a bordo vi erano sospetti di un contagio in corso. Se a Marsiglia si fosse tenuto scrupolosamente conto di quanto segnalato dai commissari toscani si sarebbero dovute applicare rigide procedure, tra cui la distruzione dell'intero carico. È di un altro avviso Jean-Baptiste Estelle, primo magistrato cittadino e proprietario, insieme ad altri mercanti della città, del trasporto di tessuti pregiati provenienti dal Levante. Sulla base delle pressioni di Estelle e degli altri magistrati cittadini, tutti solidamente legati alla borghesia mercantile della città, l'intendenza di sanità marsigliese derubrica gli ammalati a bordo a semplici affetti da «febbri maligne dovute a condizioni igieniche scadenti». Insomma, con leggerezza afferma che non si tratta di peste: e così il carico prezioso è salvo.
Il prezzo di quella leggerezza lo pagherà tutto la popolazione della città di Marsiglia.


[Articolo a cura di Marco Meotto]

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