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L'idea nazionale ha fatto anche cose buone? Raccontiamocela bene, anche chiusi in casa

Un contributo di Francesco Filippi sui pericoli della retorica nazionalista nel discorso pubblico, perché il racconto dell'"essere italiani" può nascondere il rifiuto dell'Altro.



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Manifesto fascista degli anni '30 a sostegno dell'autarchia economica

Marzo 2020, quinto giorno di quarantena nazionale. Tempo da film, tempo da racconti. 
Uno dei racconti più solidi e affidabili di questo tempo claustrale che il morbo sta proponendo a tutti noi è il risveglio della coscienza nazionale, vera o presunta: da più parti viene un richiamo forte a un’unità di popolo imperitura, a valori comuni e unificanti, a prese di posizione patriottiche. TV, Social, vicini di casa, ci raccontano che “noi italiani” “siamo forti”. Racconti che sfociano in situazioni di paradosso quasi macabro quando delle persone chiuse in casa per farsi coraggio si cantano da un balcone all’altro “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!”. In verità non il migliore dei motti, in tempo di pandemia. Prendendo il buono che deriva da questa narrazione, e comprendendo la necessità di avere in questo momento di crisi dei temi unificanti, forse sarebbe bene riflettere sul modo in cui questo racconto antico dell’Italia si sia sviluppato nel tempo e per quale motivo una sua accettazione passiva potrebbe essere pericolosa, così come lo è già stata in passato. Insomma, cosa diciamo oggi quando diciamo che “siamo italiani”? 

La redazione del Corriere della Sera ha promosso la campagna "Esponi il tricolore" invitando i lettori a mandare alla redazione le foto delle bandiere nazionali appese ai balconi (foto da https://torino.corriere.it/)
Raccontarsi dopo la guerra
Il racconto di chi siamo noi oggi nasce da lontano. Nasce, a ben pensarci, da un inganno, e dalla rabbia. Dalla rabbia per la sconfitta della guerra fascista, dall’inganno che da impero invincibile trasforma il paese in terra di conquista: il popolo che il 26 luglio del 1943 piccona via i fasci littori dalle facciate degli edifici trova in questi gesti il modo, violento e liberatorio, di scardinare il dato di fatto che appena un mese prima si era riunito per raccogliersi attorno al duce che proclama la resistenza a oltranza all’invasore angloamericano. 
Il racconto fascista comincia a morire lì, in quelle picconate. E subito c’è bisogno di un racconto nuovo. 
Con la vittoria nella guerra civile, il 25 aprile 1945, la Liberazione pare portare con sé la volontà di fare i conti con il proprio passato, cioè di “raccontare nuovamente” il proprio passato. Ci sarebbe da fare pulizia, ma troppo fitta è la trama di collegamenti, favori, attenzioni e connivenze che il sistema fascista ha intessuto negli anni per poterla districare senza disfare, insieme ad essa, la gran parte del tessuto sociale del paese. In una nazione nuova nelle velleità ma vecchia nei modi di fare e di pensare a pochi, specie tra quelli che sono al potere, interessa davvero ristabilire un confine tra fascismo e antifascismo così come lo avevano sognato i relativamente pochi combattenti per la libertà. Meglio voltare pagina, provando a costruire un racconto nuovo. 

Assolversi: il racconto pubblico dell'Italia
Il passato è troppo complesso, e va in gran parte accantonato. Agli sforzi di Parri e compagni nell’istituire una commissione di epurazione nei confronti dei fascisti si sostituisce la volontà, e anche la necessità, di intraprendere “il doloroso percorso della pacificazione” guidato dagli esponenti che insieme raccolgono la maggioranza assoluta dei consensi nel paese: De Gasperi e Togliatti. Ancora una volta, a ben vedere, idee politiche si cristallizzano attorno a leader carismatici. 
La paura della guerra fredda, la necessità di far ripartire un intero paese in stato di conflitto semipermanente da decenni, l’effettiva benevolenza degli alleati occidentali; tutto ciò porta alla costruzione di un racconto pubblico nuovo, ampiamente autoassolutorio. Si scaricano le colpe sul tedesco, ex alleato poi ex nemico e ora, a fine guerra, nuovamente alleato. Quello che non si può smentire si cancella e dimentica, come le stragi e violenze degli italiani in giro per il mondo o le deportazioni interne. 
Chi si occupa di riprofilare il racconto pubblico di sé degli italiani dopo il ventennio fascista ha in mano poche carte da giocare: il tentativo principale è quello, soprattutto, di ritracciare la figura di un “italiano eterno” che sia lontano dalla figura di “italiano nuovo” fascista dipinta per anni dai mussoliniani. L’operazione riesce grazie a un paio di armi formidabili: l’oblio e il cinema, che si uniscono per ridisegnare figure di italiani presentabili, in cui identificarsi. La nuova Italia che si vede sugli schermi parla soprattutto di presente e di futuro; quando parla di passato, lo fa ricordando le sciagure ma non i delitti, riportando alla luce gli eroismi ma non le vergogne, ponendo se stessa sempre dalla stessa parte, quella giusta. 

Una scena del film Mediterraneo di G. Slavatores (1991)

Da Roma Città Aperta di Rossellini a Mediterraneo di Salvatores, da Tutti a casa con Alberto Sordi a Il mandolino del capitano Corelli con Nicolas Cage i ruoli e i “tipi” italici sono sempre gli stessi. Qualcosa di molto lontano dai pretesi italiani marziali, impettiti e dediti allo stato di mussoliniana memoria, quindi più presentabili. Normalmente individualisti, dediti alla difesa dei propri interessi e degli affetti racchiusi nei clan familiari; disillusi ma scaltri, geniali perfino, e fortissimi idealisti e combattenti feroci ed eroici, quando la situazione lo richieda. In questo quadro anche la doppiezza, la codardia e l’ossequio del potere con cui si tratteggiano gli italiani sono accettati come parte della rappresentazione di quel “noi” che ci identifica e marchia tutti. 

L'idealtipo dell'italiano e l'esclusione dell'altro
Un’operazione che detta ancora i ritmi della narrativa pubblica del paese, se è vero che oggi questi modi di intendersi sono parte del racconto che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi giorno per giorno, nell'affrontare ad esempio l’impatto della pandemia. Sono ruoli che noi stessi riconosciamo parte del significato di questo aggettivo, italiano, ma sono anche abiti mentali all'interno di cui veniamo calati per dire che sì, è lecito scappare a casa da mamma anche se la legge lo vieta, o andare a sciare perché “si è giovani e forti”. L’italiano, come idealtipo, ama la mamma e giudica le regole solo dei consigli non richiesti. E le colpe sono sempre esterne (Europa matrigna) così come la salvezza (gli aiuti cinesi). Perché l’italiano deve essere anche, fuori dall'emergenza, un attore passivo, quindi senza meriti, e pure senza colpe. Una sorta di storia genetica del comportamento che non ci lascia scampo. Sono atteggiamenti che sappiamo “normali” perché inseriti nella lunga narrativa nazionale dell’arte d’arrangiarsi delle maschere di Totò, del servilismo schivo delle figure mitiche messe in scena da Alberto Sordi; dal rampantismo ingenuo, ma buono, dei personaggi di Diego Abatantuono e Checco Zalone. 
Una lettura forte, che sul momento è denigrante, certo, e però garantisce anche la consolazione di persone che al momento del bisogno si prodigano per il prossimo, che forse non pagano le tasse ma fanno donazioni una tantum agli ospedali; che l’onore forse no, ma la pelle, comunque, la portano a casa. 
Di questo racconto fa parte oggi la giusta esaltazione di medici, infermieri e personale che con abnegazione svolge incarichi di prima linea nell’emergenza, lasciati però in molti casi con protezioni inadeguate e protocolli stringenti (racconto fotocopia di quello dei soldati italiani in Russia e nei Balcani, con le scarpe di cartone e fucili modello ‘91 riportati da Revelli e Rigoni Stern). Fanno parte i casi di eroismo nell’aiuto al prossimo e anche le critiche feroci ai paesi vicini, impersonati come figure mitologiche: la Francia fellona, la Germania infida. 
Sembra normale che in situazioni di crisi comunità estese e intere società si affidino a racconti diretti e immediati sull’identità, a emozioni forti e semplici come il sentimento di appartenenza nazionale. Stare insieme e sentirsi parte di un gruppo è sempre, in momenti di difficoltà, una bella cosa. Tra l’altro, a ben pensarci, è la prima volta, dopo quasi ottant’anni, che al paese si impone una stretta così forte riguardo le libertà civili di tutti noi, in primis quella di movimento. Le finalità sono giuste e razionali, eppure una risposta pubblica così automaticamente collegata a stereotipi fissati nell’immaginario collettivo novecentesco fa sensazione. Perché essere italiani non può essere, non deve più essere un’etichetta così dura e determinata: troppo imprecisa, troppo pesante, troppo difficile da plasmare al presente senza pericolosi tagli e forzature. E che soprattutto fa scattare il senso brutale dell’identità di gruppo: l’esclusione dell’Altro. Così il tutto si riduce a una corsa ad avvalorare la propria fedeltà al modello, all’essere “italiani”, e al contrapporsi a quelli che italiani non possono essere. Il primo frutto avvelenato di questa divisione pesa sui giudizi nel trattamento delle notizie sulla pandemia negli altri paesi. In più di un commento pubblico e privato trapela l’idea che “gli altri” debbano ancora subire “quello che stiamo subendo noi”, con un macabro gioco al massacro internazionale. 

Status su Facebook di P.S. (italiano, cittadino, persona), 8 marzo 2020
Verso un nuovo racconto
Basterebbe cambiare il focus del discorso: notare ad esempio che si è, prima e soprattutto, esseri umani. Con paure e dubbi individuali e collettivi, ma senza la necessità di rintracciare comportamenti di gruppo atavici predeterminati. Forse si dovrebbe riformulare il racconto, a tutti i livelli, attraverso parole antiche ma in qualche modo rinnovabili. Si potrebbe indossare, anziché il cappello di “italiani”, quello più settecentesco di “cittadini”; o addirittura il più vago, e per questo omnicomprensivo e utile, “persone”. Persone chiuse in un luogo che hanno bisogno di significato e che, al momento, affidano questo bisogno a categorie che sono simboli chiusi del passato. Se è vero che un racconto delle nostre comunità è necessario per mantenere stabilità e compattezza in un momento complesso, è proprio un racconto cristallizzato che fa ricadere una società nei medesimi errori storici da essa percorsi, riaprendo ferite e piaghe che il nazionalismo ha inferto già troppe volte. I vecchi racconti sappiamo già, bene o male, come possano andare a finire. 
Potremmo affidarci ora a racconti nuovi e aperti che possano far nascere il seme di un salutare cambiamento.

[Articolo a cura di Francesco Filippi]

Commenti

  1. Bellissimo articolo, ma difficile da condividere con chi ad esempio battezza i bambini per non inimicarsi genitori, parenti e vicini di casa.

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