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Stereotipi. Le (molte) resistenze delle donne.

La narrazione storica delle lotte e dei fenomeni di opposizione passa spesso attraverso una sostantivizzazione maschile. L’aspetto femminile nei contesti bellici è eccezione, ausilio, mai costituzione e fondamento. A partire dal settembre del ’43, però, in molti ambienti italiani sono proprio le donne a tenere insieme il tessuto sociale, ad agire da imprescindibili fondamenta, struttura logistica, baluardo morale – quando non combattenti attive – della lotta armata antifascista. Una pagina di storia troppo frequentemente occultata, oltraggiata, non interpretata.

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Marie Moravec con i figli Vlastimil (a sinistra) e Miroslav (a destra)



Il volto femminile nella narrazione della memoria
La capsula si spezza tra i denti. Il cianuro è amaro, sulla lingua. Nel bagno di un appartamento di Praga la signora Moravec sorride. Quando il commissario tedesco sfonda la porta con una spallata è troppo tardi: non sarà lei a svelare dove si nascondono i paracadutisti cecoslovacchi che hanno tentato di uccidere la “bestia bionda”, Reynard Heydrich, ideatore della soluzione finale e protettore di Boemia e Moravia. 
È il 17 giugno del 1942 e Marie Moravec sa che finire vivi nelle mani dei tedeschi è peggio che finirci morti. Suo malgrado, però, lascia il figlio Ata e il marito Alois alla Gestapo. La sua testa mozzata verrà sottoposta alla vista del ventunenne Ata Moravec che, stremato dalle torture, rivelerà il nascondiglio dei paracadutisti per poi morire, pochi mesi dopo, a Mauthausen. 
Nella stessa estate del ‘42 Gertrud Kurz, personalità di spicco del protestantesimo svizzero, chiede la revoca del blocco delle frontiere entrate in vigore nel suo “neutrale” paese. Dopo due ore e mezza di battaglia con il ministro del Dipartimento di Giustizia e Polizia riesce a ottenere un ammorbidimento della politica di accoglienza per le categorie più vulnerabili guadagnandosi l’appellativo di “Madre dei rifugiati”.

Gertrud Kurz nel 1965

Già nel 1940 una sua connazionale, Mathilde Lejeune-Jehle, aveva scritto e fatto circolare l’opuscolo Menschen auf der Flucht (Esseri umani in fuga) edito dalla Lega delle donne per la pace e la libertà. Sia Gertrud che Mathilde sanno che le parole hanno il potere di essere dette, di farsi carne, e che questo può cambiare il destino di molte vite, così iniziano a girare per la Svizzera: Gertrud tiene numerose conferenze riguardo la persecuzione degli ebrei e Mathilde si affida al teatro dialettale portando in scena nel 1941 Gstez und Gwüsse (Legge e coscienza) uno spettacolo che ha per protagonisti un ebreo e sua figlia: «Lo sapete bene che ora gli ebrei vengono deportati come bestiame in Polonia… Lo sapete bene cosa ne sarà di me laggiù, conoscete bene le maledette…», «La Svizzera è neutrale e non si tollerano diffamazioni a uno Stato amico» risponde il solerte funzionario elvetico. Lo spettacolo è ambientato nel 1940. Tutti sapevano, pochi parlavano, ancora meno agivano. 
Marie Moravec, Gertrud Kurz, Mathilde Lejeune-Jehle sono solo alcune delle donne che a milioni durante la Seconda Guerra Mondiale hanno contribuito a costruire quella resistenza civile e morale, prima ancora che armata, che in buona parte d’Europa si è opposta al nazifascismo a tutela di una coesione sociale alternativa a quella propagandata dell’odio o, nei casi migliori, dell’indifferenza. 
Dopo l’8 settembre del ’43, a seguito dell’armistizio che porta allo sbandamento dell’esercito italiano e all’occupazione tedesca, l’Italia partorirà a centinaia di migliaia le sue Marie Moravec.

Resistenza civile e “maternage di massa”

M.S., operaia torinese, è una di quelle. Quando i primi militari in fuga, alla disperata ricerca di abiti borghesi, bussano alla sua porta, lei dona i vestiti dei suoi famigliari. In pochi giorni, però, diventa evidente che ciò a cui può far fronte con il suo guardaroba è del tutto inadeguato rispetto all’ondata che sta travolgendo la città; svuotare gli armadi non sarebbe bastato e non appena M.S. se ne rende conto si organizza: gira il quartiere per fare incetta di abiti borghesi e trasforma la sua casa in un efficiente e frequentatissimo punto di raccolta. Non contenta allestisce un dormitorio nelle cantine, ed è lì che, dopo averli sfamati, fa riposare gli sbandati, che grazie al passaparola accorrono sempre più numerosi. Lei li riveste da capo a piedi e, non potendole cambiare, ridipinge con cura ogni paio di scarpe militari, poi accompagna i suoi ospiti, uno a uno, alla stazione di Porta Nuova, dove, per fingere che siano parenti in visita, si profonde in baci e abbracci. 

Quella di M. S. e di Marie Moravec è un’accoglienza pratica, priva di enfasi eroica. Un’accoglienza che ha dei precedenti in tutto il ventennio fascista, ma che in Italia assume le dimensioni di un fenomeno storico-sociale massiccio a partire dall’8 settembre del ‘43. È proprio con lo sbandamento che gli storici fanno coincidere l’esplosione di quella che verrà definitiva resistenza civile, un’autodifesa sociale di istituzioni e popolazioni che decidono consapevolmente di mettere in atto pratiche conflittuali non armate con l’intenzione di combattere nazismo e fascismo, rifiutando il dominio che questi pretendono di esercitare sulla vita e le strutture della società. 

È in questi giorni d’autunno che Adriana Locatelli, bergamasca, decide di accogliere in casa un gruppo di militari sbandati che guiderà per più di un anno e mezzo in azioni partigiane sul territorio lombardo, fino a quando i tedeschi la cattureranno. Tenteranno di farla parlare, in ogni modo. Non aprirà bocca. E, miracolosamente, sopravvivrà alle sevizie tedesche.

Partigiana impiccata per le strade della Roma occupata dai nazisti

Se i gesti di Marie Moravec, M.S., Getrud Kurz e Mathilde Lejeune-Jehle sono intrisi della praticità femminile di cui abbiamo parlato, lo stesso vale per le parole con cui Adriana Locatelli descrive le torture a cui è stata sottoposta, nell’intervista rilasciata nel 1965 a Liliana Cavani, per il documentario La donna nella Resistenza, girato in occasione del ventesimo anniversario della Liberazione. È importante guardarle, queste donne, ascoltarle mentre parlano. Nessuna retorica: lontana dall’autocelebrazione virile, questa resistenza sembra comporsi di atti doverosi e dovuti, la cui urgenza ineluttabile sminuisce l’aspetto epico a fronte della necessità civile. Una necessità che in prima battuta – complice il fatto che spesso le donne fossero rimaste uniche sovrintendenti delle case, lavoratrici e cittadine dell’Italia svuotata dal richiamo bellico – si concretizza in un’accoglienza. È un fenomeno, questo, che la storica Anna Bravo ha battezzato come “maternage di massa”. Un termine che descrive quella forma di resistenza civile che vede la declinazione del ruolo materno in una funzione collettiva, il riconoscimento di un valore pubblico, oltre che privato, alle capacità di cura adoperate per la salvaguardia della società civile dalla barbarie del nazifascismo. Stiamo parlando di un atto civile, dunque, prima ancora che politico, diffuso in donne prevalentemente proletarie che agiscono con risolutezza materiale, del tutto consapevoli dei rischi che le proprie decisioni comportano per l’incolumità propria e dei loro figli.

I nodi della rete: vergogna, dissenso, resistenza
Accanto alle donne che nascondono i vivi, ci sono quelle che lavano e seppelliscono i cadaveri dei partigiani impiccati, un gesto che sprigiona un potere simbolico non indifferente, che contribuisce a un progressivo isolamento morale degli occupanti. Spesso a rendersi protagoniste di queste azioni sono i Gruppi di difesa. Accanto alle donne che fanno muro contro i rastrellamenti, poi, ci sono quelle che sabotano la produzione bellica manomettendo i macchinari industriali. Da Carrara a Roma le donne impongo i loro corpi nello spazio pubblico, e salvano vite. 
Marcella Monaco è la moglie del medico del carcere di Regina Coeli. Nell’ottobre del 1943, dopo la razzia del Ghetto di Roma, dalla transenna di un camion carico di ebrei un uomo le getta tra le braccia la sua bambina. Marcella Monaco l’afferra al volo e la tiene stretta a sé, ma la figlia di quell’uomo ha sei anni e grida disperata. Le SS si insospettiscono. Sul piazzale, un gruppo di donne, accortesi del pericolo, le spingono dentro a un portoncino. Marcella Monaco riuscirà ad arrivare a casa, dove la aspettano i suoi figli. La bambina dell’uomo sul camion, però, non smette di piangere e gridare. Continua, tutta la notte. «Forse quella notte», dice Marcella Monaco, «ho capito bene che vergognoso periodo stavamo passando». Dice “orribile”, prima, poi si corregge e definisce quel periodo storico “vergognoso”. Sta in questa differenza, forse, il fil rouge che lega i gesti che abbiamo raccontato. C’è, alla base, il tentativo di salvare dall’imposizione nazifascista e dall’orrore della guerra qualcosa di collettivo, in vista di un futuro da preservare, la speranza che questo futuro esista se si contribuisce a mantenerlo in vita, attraverso dei gesti che permettano di guardarsi un giorno allo specchio e sentirsi meno parte di quella vergogna. 
Marcella Monaco

L’Italia e l’Europa assistono in questi anni a una mobilitazione che solo in alcuni casi era già precedentemente politicizzata o legata a gruppi antifascisti. In molte altre situazioni – ed è il caso di M.S., ad esempio – forme di resistenza civile nascono in maniera informale, lontano dal circuito politico, apparendo come una produzione spontanea del tessuto sociale o di parte di esso. La rete grazie alla quale si sviluppano è varia sia a livello qualitativo che quantitativo: vi sono episodi estemporanei o duraturi e a essere coinvolti possono essere il paese, la parrocchia, i Gruppi di difesa o le conoscenze esclusivamente parentali, legami di amicizia puntuali. Quelle che vengono prese da tutte le M.S. che si ritrovano sulla porta sbandati, prigionieri, antifascisti ed ebrei sono quasi sempre decisioni personali, non meno rischiose o difficili di quelle davanti a cui si trovano i combattenti armati partigiani. Ma è proprio qui che si gioca la complessa partita della definizione storiografica. Lo storico Semelin, ad esempio, tende a riservare il termine “resistenza civile” a iniziative di masse o organizzate, relegando le azioni di piccoli gruppi o singoli individui alla più debole categoria di disubbidienza o dissenso. Ma come scrive Anna Bravo nel suo saggio intitolato Resistenza civile le donne che animano la resistenza non armata femminile fanno sistematicamente «del riferimento al privato e al familiare il massimo strumento di diversione e manipolazione del nemico: contrabbandano le riunioni per incontri amicali, trasformano una militante politica in una parente sfollata, un ricercato in figlio, marito, amante – come la brava moglie torinese che per proteggere un antifascista sorpreso a casa sua dichiara di avere una relazione amorosa con lui, e affronta il processo e la perdita della rispettabilità (Bravo-Bruzzone 1995). Fanno di un libro il contenitore per una rivoltella, del proprio corpo il nascondiglio di documenti, di un fiore un simbolo o un segnale. Assumono la maschera della ragazzina ingenua o della giovane bella e svagata». Ed è forse qui, nell’incapacità di definire questo privato, questo uso del proprio corpo come politico, come fondativo della differenza tra agire e non agire – e nella mancanza di orizzonti semantici dove inserirlo, questo uso del corpo – che vanno cercate le radici della mancata trattazione del femminile nella narrazione della Resistenza.

Ricordo privato e memoria pubblica: la negazione del femminile e le armi al centro di tutto
È ormai indubbio che il “maternage di massa”, la capacità di creare welfare con tutte le sue implicazioni, costituisca uno dei pilastri fondamentali della resistenza civile che tante volte è stata la base costitutiva di quella armata. È importante tuttavia sottolineare che questo “maternage” è da intendersi come una pratica diffusa in tutta la società e non solo come prerogativa femminile. La distorsione socio culturale che porta a considerare la capacità di cura come qualcosa di indissolubilmente legato al ruolo della madre non deve però condurre a escludere da questo processo di resistenza uomini civili e di chiesa che, rimasti nei paesi e nelle città, contribuirono, a fianco alle donne, a costruire una rete di protezione e rafforzamento dei legami comunitari di solidarietà. In alcuni casi, tuttavia, quando si tratta di uomini che abbiano declinato il proprio impegno di resistenza senza l’ausilio delle armi, la loro memoria è stata, con il tempo, compresa e celebrata. 
Purtroppo, fin dal primo giorno di pace, fu proprio il timore della femminilizzazione dei combattenti da una parte, e il terrore di dover mettere in discussione il ruolo della donna, madre di famiglia e sposa sottomessa, educatrice di figlie mansuete e corrispondenti ai canoni della morale cattolica, a mettere in ombra l’aspetto civile della Resistenza. Alla fine della guerra, la narrazione legata all’uso delle armi sembrava l’unica possibile. D’altra parte, proprio la canonizzazione maschile della lotta partigiana, portò all’imbarazzo nel riconoscere il ruolo delle combattenti, delle donne che avevano imbracciato le armi a fianco degli uomini in montagna, alle quali venne in larga parte sconsigliato, quando non vietato, di sfilare nei cortei di liberazione. «Mammamia, per fortuna che non c’ero andata anch’io, la gente diceva che erano delle puttane», è il commento di una delle partigiane intervistata da Liliana Cavani, rimasta in disparte nella folla ad applaudire le poche compagne che sfilavano. Una donna uscita di casa per imbracciare le armi è del tutto incompatibile con lo stereotipo di femminilità e, finita la guerra, non può che essere una minaccia al buon costume, una “puttana”, dunque, che se ha partecipato alla Resistenza deve averlo fatto offrendo i propri servigi sessuali. 
Il PCI che vuole accreditarsi come forza rispettabile a Torino vieta alle partigiane delle Brigate Garibaldi di sfilare pubblicamente. Altrove, dove viene consentito, molte combattenti sono invitate a sfilare senza armi, vestite da crocerossine. Crocerossine, dunque, staffette, zelanti ausiliari, ma non combattenti: i canoni per essere dichiarato resistente vengono stabiliti da un’apposita commissione del Ministero della Difesa e paiono molto eloquenti: può farsi avanti a richiedere la qualifica di partigiano solo chi abbia portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata «regolarmente inquadrata nelle forze riconosciute e dipendenti dal Comando volontari della libertà», e ha compiuto almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. Per chi è stato incarcerato, mandato al confino o deportato nei campi di concentramento la qualifica viene riconosciuta solo qualora la prigionia abbia superato i tre mesi.



In piazza San Marco durante i giorni della Liberazione: una partigiana con i partigiani garibaldini
Avremo così riconosciute ufficialmente 35.000 donne partigiane e 70.000 operanti nei Gruppi di difesa, cifre ampiamente sottostimate dell’attività di donne resistenti sul territorio italiano. È evidente come le pratiche che non prevedono l’utilizzo attivo delle armi, dunque femminili o femminilizzate, vengano rilette in chiave ausiliare e non come costituenti della Resistenza. Si parla frequentemente di “contributo”, come una sorta di appendice e non come parte fondativa della complessa rete di opposizione che si va delineando a seguito dell’armistizio. Scrive Anna Bravo: «il risultato è che un intero universo di comportamenti resta confuso nel paesaggio della guerra civile, perché non esistono né un orizzonte simbolico capace di accoglierli, né un termine che li ricomprenda e li caratterizzi».
Il risultato è che la storia di M. S. è stata per anni affidata al ricordo personale e privato della figlia, diciottenne attiva procacciatrice di lasciapassare, e che entrambe, madre e figlia, non credevano di aver fatto parte della Resistenza a titolo alcuno. Oggi riconoscere il ruolo della resistenza civile in modo paritario a quello della resistenza armata significa spostare queste storie dalla dimensione del ricordo privato a quella della memoria pubblica; rendere questa forma di resistenza accessibile al comportamento quotidiano, alle coscienze di ognuno per quelle che sono le circostanze del presente. 
Come scrive Laurent Binet nel suo romanzo HHhH, il cervello di Himmler si chiama Heydrich: «Chi è morto è morto e non gl’importa nulla che gli si renda omaggio. Ma è per noi, per i vivi, che significa qualcosa. La memoria non è di alcuna utilità a chi viene onorato, ma serve a chi se ne serve. Grazie a lei mi costruisco, e grazie a lei mi consolo». 
È con l’auspicio che lo spirito che ha animato il “maternage di massa” possa tornare a scorrere nel tessuto sociale europeo delle migrazioni, dei suprematismi, della logica della paura, della diffidenza e della nazione – che possa diffondersi ed emanciparsi dallo stigma del femminile – che le ricordiamo ancora una volta, loro per tutte: Marie Moravec, Gertrud Kurz, Mathilde Lejeune-Jehle, M.S., Adriana Locatelli, Marcella Monaco. 

[Articolo a cura di Martina Merletti]

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