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Stereotipi. Il mito del villaggio immobile: in marcia nell'Europa del Settecento

A lungo si è sostenuta l'idea che l'Europa moderna fosse costituita da "villaggi immobili". Le acquisizioni della ricerca ci spiegano che non è così. L'homo sapiens - da quando esiste - è sempre stato anche homo migrans.

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Sempre in viaggio
«La vecchia Europa era un mondo dinamico, sulle cui strade si muovevano quotidianamente “nomadi”, “girovaghi” e “viaggiatori” di riguardo. Si passava, nel XVIII secolo, dal livello alto del giovin signore in carrozza che partecipava al “tour dei cavalieri” o del gruppo in viaggio per il “grand tour” verso l’Italia, a quello intermedio dei garzoni artigiani e dei mercanti ambulanti carichi di sporte, per finire al livello più basso dove si incontrava ogni sorta di “gentaglia” anche pericolosa, che faceva passare la voglia di “fare la conoscenza” degli estranei.»
Un gruppo di Hollandgänger, migranti stagionali che si muovevano dai territori tedeschi del nord verso i Paesi Bassi tra XVII e XIX secolo (Litografia di L. Preller - Emslandmuseum Lingen)


Nell’Europa dei primi secoli dell’età moderna si muovevano su grandi distanze i più svariati gruppi di migranti per mare e per terra, per periodi temporanei o permanenti.
È questo il quadro della società europea nella piena età moderna che ci propone lo storico tedesco Klaus Bade: su tutto spicca il dato della mobilità geografica della popolazione. E a muoversi sono persone molto diverse tra loro, per le motivazioni del proprio mettersi in viaggio, per la classe sociale di appartenenza, per l’età, per il genere. Il Vecchio Continente non era, insomma, un mondo immobile. 

Il Grand Tour e l'immaginario delle élite sociali

C’era una ristretta fascia di popolazione, generalmente giovani appartenenti all’aristocrazia, che viaggiava per puro piacere e per ampliare il proprio orizzonte culturale. Lo chiamavano “Grand Tour”: lo avevano iniziato a fine Seicento i giovani lord inglesi e, nel Settecento, era diventato un modo per affermare il proprio status. Il viaggio prevedeva la visita della Francia, che dalla monarchia di Luigi XIV in avanti e per tutto il Settecento era diventata il modello del “buon vivere”: gli abiti di moda, la cucina raffinata, i vezzi di chi aveva il tempo per oziare trovavano a Parigi la propria capitale. Ma poi ogni “giovin signore” che si rispettasse doveva visitare l'Italia: Venezia, Firenze, le meraviglie delle decine di città in cui aveva trionfato l'arte rinascimentale; non poteva mancare la contemplazione delle rovine della Roma antica e di quelle alle pendici del Vesuvio. Nel corso del Settecento i sovrani del Regno di Napoli avevano infatti finanziato gli scavi archeologici prima ad Ercolano, e poi a Pompei: tornavano così alla luce impronte di un passato lontanissimo che colpiva e sfidava l'immaginario dell'epoca. L'attenzione, la curiosità e l'ammirazione per l'Italia rinascimentale, accanto ai lasciti della cultura romana e, per i nobili viaggiatori che si spingevano ancora più a sud, le memorie della cultura della Magna Grecia erano gli ingredienti che portavano a ridefinire i canoni del gusto estetico del Settecento. È il fenomeno che va sotto il nome di “neoclassicismo” e che segna gli sviluppi delle arti per tutta la seconda metà del secolo. 


Lord Douglas, duca di Hamilton, con il proprio medico e il figlio durante il Grand Tour: dalla finestra si osserva uno scorcio della città di Genova. (Jean Preudhomme, 1774 - National Museum of Scotland)



Con una borsa al collo. Le strade dei colporteurs 
C’era chi si metteva in viaggio per motivi di lavoro. Poteva trattarsi di esponenti di mestieri ricercati, come gli artisti, gli architetti, gli scultori, ma potevano essere anche lavoratori stagionali – mietitori, zappatori, tagliaboschi, raccoglitori di frutta – oppure commercianti ambulanti, che si muovevano per centinaia se non migliaia di chilometri con il proprio carretto carico delle merci più disparate: pettini, berretti, fazzoletti, calze, tessuti, ma anche imitazioni di vestiti di lusso e suppellettili domestiche. 
C'erano poi figure specializzate nel commercio itinerante di oggetti particolari, che stavano iniziando ad attirare un grande interesse anche presso i ceti meno ricchi. Si trattava dei venditori di stampe, almanacchi e soprattutto di libri, un genere di consumo che nel Settecento interessa un pubblico più vasto di quanto fino a qualche anno fa gli studiosi erano abituati a credere. Esiste un nome in francese – perché proprio in Francia avevano uno speciale radicamento – per indicare questi venditori ambulanti di carta stampata: erano detti colporteurs, letteralmente quelli che “portano al collo”. Portavano appesa al collo una cesta o una cassetta con gli articoli in vendita: il loro particolare commercio era dunque definito colportage
Curiosamente, i principali circuiti del colportage europeo avevano le aree di partenza – le basi da cui si muovevano i viaggiatori – in zone di montagna. 


Librai di montagna per aggirare la censura
Questo peculiare aspetto ci aiuta a sgomberare il campo da un altro pregiudizio figlio del tempo presente, quello che le terre di montagna siano, durante l'età moderna, un'area poco dinamica, povera e tendente allo spopolamento. Lo studio del sistema del colportage ci insegna che, a differenza di quanto il senso comune contemporaneo spesso crede, le “terre alte” sapevano costruire reti sociali ed economiche molto solide. Non erano, insomma, terre marginali.
E dei marginali non erano nemmeno questi viaggiatori itineranti che si muovevano in lungo e in largo per le strade d'Europa. Dobbiamo alla storica francese Laurence Fontaine la conoscenza approfondita della realtà dei colporteurs. Grazie ai suoi studi oggi gli storici hanno una consapevolezza migliore della inaspettata dinamicità di alcuni segmenti della società nell'Europa del Settecento. Anche in questo caso possiamo mettere in discussione uno stereotipo, che deriva da una lettura della realtà schiacciata sul presente: siamo abituati a pensare ai venditori ambulanti come a figure povere o in procinto di precipitare nella povertà, la realtà era un'altra. Attorno ai colporteurs orbitavano le sorti di interi distretti geografici e settori economici: molti colporteurs diventano imprenditori della nascente industria libraria, altri si affermeranno nel settore della vendita al dettaglio degli orologi, un altro bene di consumo che trovava posto nelle ceste che portavano appese al collo. Il ruolo di questi mercanti di montagna è però strategico per una società, quella settecentesca, che inizia ad essere affamata di cultura. 
Per chi vuole cibarsi di cultura esiste però un grosso problema. Nell'Europa moderna sono le autorità statali a stabilire quali pubblicazioni siano lecite e quali non lo siano. Ogni Stato, grande o piccolo non importa, esercita qualche forma di censura, più o meno stringente. E allora solo chi si muove costantemente di qua e di là dai confini può “spacciare roba buona”, cioè quelle pubblicazioni clandestine, magari lecite nello Stato in cui sono stampate ma proibite in quello confinante. Insomma, per chi vuole sfidare la censura non resta che affidarsi ai colporteurs e ai “libri proibiti” che si trovano sotto i loro mantelli. 

Un colporteur, olio su tela (XVII secolo, Parigi, Musée des Civilisations de l'Europe et de la Méditerranée)

Restare? 
La mobilità geografica interessava una parte consistente della popolazione europea in età moderna. Bisogna chiarire che esisteva un variegato ventaglio di forme migratorie diverse. La maggior parte erano migrazioni “socio-professionali”, dovute cioè a ragioni economiche. Tra queste gli storici hanno messo in rilievo le differenze tra le situazioni in cui l'emigrazione è una risorsa strutturale – a cui le famiglie e gli individui che le compongono ricorrono ciclicamente e in modo complementare alle altre attività economiche – e le circostanze in cui la scelta di spostarsi è una risposta straordinaria ad accadimenti imprevisti, come una carestia o cambiamenti economici irreversibili. 
L'incremento demografico che si dispiega nel corso del Settecento sul continente europeo, in questo senso, stimola cambiamenti nei comportamenti migratori tradizionalmente consolidati. Ma come funzionano e che peso hanno i principali sistemi migratori interni all'Europa del Settecento che, nel corso del secolo, vengono sollecitati dall'aumento demografico e dai relativi mutamenti economici collegati? 
Lo storico olandese Jan Lucassen, nel corso di una decennale ricerca, è arrivato a documentare almeno 20 sistemi di migrazione per lavoro all'interno dell'area europea. In ciascuna delle regioni di partenza di ogni sistema si mettono in marcia annualmente almeno 20-30.000 migranti, ma in alcuni casi il numero arriva alle centinaia di migliaia. Dalle stime di Lucassen si deduce che ogni anno, nel corso del Settecento, In Europa si muovono oltre un milione di persone su distanze superiori ai 300 km. Poche parti del continente ne sono escluse: sulla penisola italiana, ad esempio, circa 50.000 persone si mettono in moto ogni anno nella Pianura padana; almeno il doppio sono i migranti che danno vita al sistema migratorio dell'Italia centrale. 
In questo loro continuo viaggiare, i migranti conoscevano molta più gente di quanta ne avrebbero mai conosciuta restando a casa propria. Ed entravano in contatto anche con una cultura e modi di vivere nuovi, non per forza migliori, ma di certo diversi da quelli a cui erano abituati. È questo un elemento da non mettere in secondo piano. Emigrare poteva significare, in alcuni casi, assaporare una diversa forma di libertà, anche perché il luogo di destinazione poteva essere incline a costumi e norme comportamentali meno stringenti rispetto a quello di provenienza. Non erano certo pochi i migranti e le migranti che, dopo svariati spostamenti stagionali, maturavano la decisione di trasferirsi per sempre. 

[articolo a cura di Marco Meotto]

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